Faust, l’opera che ha fatto vincere il Leone d’oro al Padiglione della Germania per la migliore partecipazione nazionale alla 57° Biennale d’Arte di Venezia, è stata concepita dall’artista tedesca Anne Imhof, con la cura di Susanne Pferrer. Di questa stessa artista è in corso fino al Novembre 21 una mostra al Castello di Rivoli. Si trattava di una performance di cinque ore che si è svolta per sette mesi (questa la durata dell’apertura della Biennale in quegli anni) all’interno del Padiglione neoclassico ai Giardini di Venezia. Si veda innanzitutto qui sotto lo spazio, che, progettato nel 2919 dall’architetto Daniele Donghi struttura neorinascimentale con pronao col nome di Padiglione Bavarese, fu poi riorganizzato su dall’architetto del Furher, Ernst Haiger nel 1932.
Coloro che si muovevano nella parte superiore, ovvero gli spettatori, intuivano il proprio ruolo e potevano decidere di fare ciò che preferivano: stare, girare, riposarsi, andarsene pure, quando lo desideravano. Sotto e in giro, ma anche talvolta “appesi” alle pareti perché accovacciati su mensole trasparenti, stavano i performer: giovani, belli, magrissimi e atletici, seri, ma soprattutto indifferenti agli sguardi degli altri, ricordavano le scimmie del giardino Zoologico, consapevoli di essere sotto osservazione di chi le guarda. Così come accadde anche nella Biennale successiva, quella del 2019, di cui si parlerà però in un prossimo post. Scimmie da laboratorio, le stesse utilizzate dagli scienziati che ne studiano appassionati il comportamento e le attività neuronali.
Tutti chiusi nelle loro gabbie di vetro. Protetti dalle spesse ma trasparentissime lastre, gli spettatori osservavano stupefatti questi ragazzi apparentemente passivi, eppure anche potenzialmente aggressivi che si allenavano, giocavano col fuoco, si dilettavano con attrezzi da tortura e sottomissione, collari chiodati, portando a spasso sé stessi e i dobermann legati al guinzaglio. Non siamo molto lontano dal ricordo della prigione di Abu Graib e dal gioco degli aguzzini con i prigionieri.
Gli spettatori, in un mortificante peep-show che consentiva loro di catturare senza divieti, e dunque con ingordigia e senza alcuna vergogna le immagini di chi avevano di fronte, sotto e davanti, si guardavano l’un l’altro sorpresi, soddisfatti, ammirati, consumavano le immagini, consumavano il loro tempo senza epilogo, consumavano la batteria del loro cellulare.Afferma Susanne Pfeffer, curatrice del padiglione: “…Così questi corpi ammaestrati e fragili sembrano un materiale permeato da strutture di potere invisibili. Sono soggetti in lotta perenne con la propria oggettivazione. Ai bio-tecno-corpi è inerente la comunicazione mediale. I performer sono consapevoli che i loro gesti non sono fini a se stessi, ma che esistono soltanto nella loro medialità. Sembrano permanentemente trasformarsi in immagini consumabili; vogliono diventare immagine, merce digitale. In un’epoca fortemente caratterizzata dalla medialità, le immagini non solo ritraggono la nostra realtà, ma la creano.”
In quest performance era importantissimo l'aspetto sonoro, in cui tutta la violenza e il dolore di questa performance rimane nell'ascolto. Si rimanda, qui, ad un pezzo di Desirée Maida su Artribune, che descrive e linka l'album di Eliza Douglas realizzato a partire dalle registrazioni dal vivo, con nuovi arrangiamenti.
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